LA MIA PRIMA FOTO SERIA


Nel 1980, in una fredda e grigia giornata di Novembre, il professore di Tecnologia portò la classe a scattare delle fotografie a seguito del corso tenuto a scuola. 

Il Professore portò la sua macchina fotografica per darla agli alunni, uno per volta, ma io andai con macchina prestatami da mio padre per l’occasione. 

A quel tempo quella macchina fotografica costava più dello stipendio di mio padre, e gli era stata regalata da mia madre per la nascita di mio fratello, avvenuta qualche anno prima. 

Mio padre custodiva gelosamente quella macchina, mai me l’aveva fatta toccare, e quel giorno mi disse: “Vai, e vedi di tornare con una bella immagine, un qualcosa che piaccia a te, niente altro.” 

I miei compagni di classe furono molto sorpresi di vedermi con una vera macchina fotografica, qualcuno ne fu molto geloso, ricordo parole cattive di un bambino il cui padre era un famoso fotografo della mia città. 

Il professore, invece, fu molto contento del fatto che io avessi una macchina fotografica mia, e mi ricordo che mi disse in un orecchio: “Il rullino è in bianco e nero, vero?”.

Io annuii, troppo emozionato anche solo per parlare. 

Andammo in riva al mare, e mentre il Professore parlava, spiegava e passava la sua macchina fotografica di mano in mano ai miei compagni, io, come mi aveva insegnato mio padre, chiusi gli occhi, e li tenni chiusi fino a quando tutto scomparve attorno a me, anche i rumori, le grida dei miei compagni, i versi dei gabbiani, il rumore delle onde, e infine anche i colori. 

Così, riaperti gli occhi, vidi il mondo in bianco e nero, con le sue sfumature di grigio, infinite, dal bianco più netto al nero profondo. Mi colpii un grosso ramo di un albero, portato a riva da una mareggiata, e contro il quale ancora le onde si infrangevano. 

Pensai di abbassarmi quasi fino a terra, inquadrando il ramo in primo piano, appoggiandomi ben bene sulle ginocchia per usare un tempo lungo e creare un effetto mosso dell’acqua. 

Ricordo le risa dei miei compagni, quando mi misi in ginocchio, quasi sdraiato a terra, impaurito dall’eventuale scivolata che mi avrebbe fatto cadere la macchina fotografica nella sabbia. Mi schernivano, ma io osservavo le loro goffe pose, inquadrature, incapaci di piegarsi, di trovare altri punti di vista oltre il canonico stare in piedi. 

E così andò, ciascun compagno scattò la sua fotografia e tornammo a scuola.

I giorni seguenti il Professore ci portò i risultati delle nostre fatiche, e disse che rispecchiavano l’anima della classe, e cioè di una manica di disperati ignoranti, di cui una metà passava il tempo a scuola a dormire e l’altra metà a menarsi in allegria, senza minimamente curarsi di apprendere alcunché.

Nessuno capì niente, tutti risero, ma io fui colpito dalle parole del Professore, e ne fui amareggiato perché pensai di essermi impegnato e di aver applicato tutto quanto mi avevano insegnato sulla fotografia.

Mentre stavo seduto nel banco a testa china, sentii che le risa e gli schiamazzi erano terminati di colpo, e allora alzai lo sguardo, e tutti stavano guardando me.

“C’è un concorso per la fotografia più bella dell’anno scolastico – disse il Professore – che ne dite, noi presentiamo questa?”

Era la mia foto, un bianco e nero formidabile, con il ramo in primo piano e l’acqua che aveva creato un effetto mosso come di mantello su cui era adagiato il ramo.

La foto vinse il primo premio, mio padre ne fu molto fiero, a scuola ne fecero un ingrandimento, la incorniciarono e rimase appesa nel corridoio per lungo tempo. 

Nessuno ebbe più niente da dire sulle mie capacità, nemmeno il bulletto che si vantava tanto perché aveva il padre fotografo.

Si sfogarono, diciamo così, con la pizza Rossini…ma quella è un’altra storia! 

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